Uscito nelle sale il primo gennaio, The Matrix Resurrections, il quarto capitolo della ormai storica trilogia, diretto da Lana Wachowski, era uno dei film più attesi di questo 2022.
Lo ammetto, quando sono entrata in sala avevo pochissime aspettative anche perché, dopo aver amato alla follia il The Matrix originale (1999) – tanto che lo rivedo sempre con estremo piacere – ho fatto davvero fatica a digerire Reloaded e Revolutions (entrambi del 2003).
Ecco, per me doveva essere un’opera autoconclusiva, ma come negare una possibilità al genio della Wachowski e ad attori del calibro di Keanu Reeves?
Avete presente il famoso tormentone “E se poi te ne penti”? Bene, nonostante le aspettative che rasentavano il nulla, me ne sono effettivamente pentita.
Partiamo dalla trama.
Pur senza spoilerare, l’inizio era promettente. Thomas Anderson (Keanu Reeves) è un famoso game designer, creatore del popolare gioco The Matrix, costituito da tre capitoli.
A causa di un “tentato suicidio” di qualche anno prima, frequenta regolarmente lo studio di uno psicanalista (Neil Patrick Harris) e segue una cura a base di farmaci inibitori (delle stranamente familiari pillole blu) che gli impediscono di identificarsi con Neo, protagonista del suo gioco, e di interpretare gli eventi in esso narrati come fatti realmente accaduti.
Fino a questo punto la realizzazione è a dir poco spettacolare, portata avanti in modo tale che, anche se solo per un momento, lo spettatore si chiede “possibile che sia stato davvero tutto frutto della sua mente”? Ma, ovviamente, non è così e una serie di eventi e incontri (che non riporteremo nel dettaglio, casomai voleste vederlo) gli fanno recuperare i suoi veri ricordi e spiegano cosa è successo dopo che Neo si è “consegnato” a Matrix e si è sacrificato per sconfiggere l’agente Smith.
Solo che da qui inizia il tracollo.
In questo capitolo tornano diversi personaggi noti, tra cui i più importanti sono Morpheus e l’agente Smith e nessuno dei due è interpretato dall’attore originario (rispettivamente Lorence Fishburne e Hugo Weaving).
Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Morpheus è una (voluta) caricatura del personaggio originale. Replica movimenti e dialoghi (letteralmente, con tanto di proiezione alle sue spalle) come farebbe un fan sfegatato davanti al suo attore preferito.
Alla fine. Dopo tutti questi anni, eccomi, che esco da un gabinetto. Tragedia o farsa?
È quello che il nuovo Morpheus dice uscendo effettivamente da un gabinetto, vestito con un abito di un arancione quasi fosforescente simile a un giullare medievale. Ok, lo ripeto: è voluto. Ma questo non toglie che la figosità (per usare un termine di Derek Zoolander, che in questo contesto non suona a sproposito) del personaggio ne esce irrimediabilmente danneggiata. Abdul-Mateen è stato bravissimo a interpretare un personaggio che, però, non avremmo voluto vedere.
Più o meno lo stesso discorso vale per l’agente Smith, interpretato da un bravissimo Jonathan Groff ma inserito quasi a calci nella storia, tanto che lo si potrebbe davvero definire superfluo.
Palma d’oro, invece, per Keanu Reeves e Neil Patrick Harris, entrambi fantastici nei loro ruoli. Harris in particolare sembrava tagliato su misura per il suo ruolo.
Tornando alla trama, la seconda parte del film è tutta incentrata su Trinity e Neo, sulla loro storia, sul bisogno di ritrovarsi e tornare a essere padroni della propria vita: gli eletti, perché lo sono solo insieme.
Anche qui, per carità, la storia è carina ma niente di eccezionale e innovativo. Una sorta di Harmony con ambientazione Matrix che ha, come unica nota positiva, il fatto che non si sia ecceduto nel cartello “girl power”.
Anche le sequenze di combattimento sono solo pallide citazioni dell’originale, prive di forza, scioltezza. Persino l’immancabile sequenza dello scontro in moto contro una quantità abnorme di nemici è priva di senso e suspense. Tanto che viene da chiedersi come sia possibile, dato che queste scene erano il più grande punto di forza della saga.
Insomma, più “fan service” che spettacolarità e storia. E i fan service si sprecano durante l’arco dell’intero film.
Allora perché, se non c’è una vera storia da raccontare, girare questo film? La Wachowski risponde direttamente all’interno della pellicola facendolo dire al capo di Anderson: la Warner Brothers, che ne detiene i diritti, vuole un altro capitolo della saga di The Matrix e la farà, indipendentemente dalla presenza o meno dei suoi creatori. Insomma, si tratta di affari, puro e semplice business.
Certo, si potrebbe andare oltre, approfondire le tematiche sottostanti la narrazione, comprendere come la trasformazione dalla tragedia alla farsa sia un percorso che andava compiuto, come non ci sia più una scelta tra finzione e realtà, ma un continuo passaggio tra potenzialità…
Insomma, c’è sempre la possibilità di dare interpretazioni e letture profonde… ma anche la libertà di pensare, più semplicemente, che un film sia solamente brutto.
Per fortuna, posso sempre rivedere il primo capitolo.