Nessuno dei fan di Star Wars può dire con certezza di essersi ripreso dalla tragica scomparsa di Carrie Fisher, interprete dell’immortale Principessa Leia. Sono passati quattro anni, eppure il dolore è sempre lì, a pungerci a ogni anniversario.
Nel 2017, quando usci “The last Jedi”, piangemmo tutti calde lacrime nel vederla sullo schermo e nel leggere, nei titoli di coda, In loving memory of our Princess.
Sono convinta che a tutti noi, trama del film a parte, abbia fatto piacere rivederla nell’ultimo capitolo della saga nel 2019, ma la vita di Carrie Fisher è stata davvero molto più di tutto questo.
Mi è sempre venuto naturale definire Leia come “un’eroina femminista”, senza il quale molti altri personaggi letterari, anche fantasy, non sarebbero potuti esistere. Leia segna uno spartiacque tra delle principesse che attendono che qualcuno le salvi, a principesse che criticano i propri principi venuti a salvarle, prendono in mano un blaster e sparano ai nemici. Con un’ottima mira, peraltro, dato che lei è il personaggio della saga che usa il blaster con migliore precisione. Ma non ci si può limitare a considerare Leia un alter ego perfetto dell’attrice che la impersonava.
Carrie Fisher nasce già dentro i cancelli dorati di Hollywood. La madre è Debbie Reynolds, attrice di grande successo candidata all’Oscar e a diversi Golden Globe. Suo padre, il musicista Eddie Fisher, si risposa quando lei è ancora piccola con una delle più care amiche della madre, Liz Taylor. Carrie desidera emulare il successo dei propri genitori, ne è quasi predestinata. Ma gli ingranaggi di una macchina come quella dell’industria cinematografica rischiano spesso di compromettere delle vite che non sono in grado di gestire la pressione che lo showbiz comporta.
Nel 1977 la Fisher viene scelta per il ruolo di Leia Organa, che la porta immediatamente a un successo planetario, sconvolgendo definitivamente la sua vita.
All’improvviso, a soli 21 anni, si ritrova sbalzata in ogni parte del mondo, tra film e action figures che riproducono le sue fattezze, il proprio volto ovunque, perfino sulle cartine delle gomme da masticare. Anche Mark Hamill e Harrison Ford, che erano al tempo attori emergenti come la stessa Fisher, dichiararono che fu effettivamente un balzo straniante nelle loro vite e che fu molto difficile da controllare a livello psicologico. In particolar modo, Carrie Fisher dichiarò che non era lei a essere diventata famosa, ma Leia, che solo per caso aveva le sue fattezze.
L’anno successivo, per lo speciale di Natale targato Star Wars, la performance della Fisher è disastrosa a causa degli abusi di stupefacenti e alcool che già avevano fatto la loro comparsa. Non si trattò di problemi facilmente risolvibili, poiché nel 1980, mentre si trovava sul set di “The Blues Brothers”, rischiò di essere licenziata in tronco perché il suo stato di perenne alterazione rendeva impossibile portare a termine qualsiasi scena la vedesse impegnata. Fu però proprio questo che la portò a prendere consapevolezza di avere bisogno di aiuto; pertanto si rivolse agli Alcolisti Anonimi e alla Narcotici Anonimi per riuscire ad affrontare le sue dipendenze.
Fu in questo periodo, all’età di 24 anni, che le venne diagnosticato il disturbo bipolare dell’umore. Non fu una diagnosi semplice da accettare per la Fisher, tanto che le ci vollero quattro anni e un’overdose per riuscire a farci i conti.
L’attrice, tuttavia, non hai mai nascosto i suoi problemi di dipendenza, anzi ne ha fatto l’oggetto di vari romanzi e autobiografie. Nel suo primo libro, “Cartoline dall’inferno”, racconta una storia semi-autobiografica per spiegare in parte i problemi del suo alcolismo, riuscendo a ottenere nomination per numerosi premi tra cui quella per l’Oscar a miglior film, per la regia di Mike Nichols con Meryl Streep.
Nel 2008 scrive “Wishful Drinking”, un saggio in cui ha continuato a raccontare, ma senza la maschera della finzione, il rapporto con il bere. Il saggio nasce da una pièce teatrale, di seguito trasformato in un documentario da HBO.
Nel 2016, anno della sua prematura scomparsa, l’Università di Harvard l’aveva insignita dell’Outstanding Lifetime Achievement Award in Cultural Humanism, per il coraggio con cui aveva raccontato le dipendenze e anche la malattia mentale.
Di fatto sono questi elementi che hanno condizionato totalmente la vita della Fisher, portandola alla morte.
Nel rapporto fatto dal coroner, riguardo la scomparsa dell’attrice, si legge che la morte è stata provocata da un’apnea notturna, assieme ad altri fattori, tra cui l’uso di droghe.
“Tra i fattori che hanno contribuito alla morte dell’attrice vi sono anche l’arteriosclerosi, e l’uso di droghe”, ha riportato il Los Angeles Times citando l’ufficio del coroner. Non è stata determinato la causa specifica della morte.
“Mia madre ha combattuto tutta la vita contro la tossicodipendenza, e le malattie mentali, e alla fine è morta per essa”, aveva dichiarato a suo tempo, alla rivista People, la figlia Billie Lourd.
Non è stata dunque una vita semplicissima quella di Carrie Fisher, ma nessuno di noi potrà mai dimenticare l’apporto sostanziale che lei ha dato al mondo del fantasy, caratterizzando nel nostro immaginario collettivo i tratti di Leia Organa, quella principessa, poi generale della ribellione e della resistenza, che ha rivoluzionato il concetto stesso di principessa. Credo che sia inevitabile pensare che c’è stato un po’ di Leia in Carrie e sicuramente un po’ di Carrie in Leia, così come in tutti i personaggi da lei interpretati, quei personaggi così forti e fragili allo stesso tempo che resteranno per sempre nella nostra memoria.