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“I RACCONTI DI ARTHALEORN – IL TACITO CANTO DEI RE SENZA CORONA” DI PAOLO LA MANNA – RECENSIONE

written by Arianna Giancola Dicembre 3, 2020
Racconti di Arthaleorn - copertina

Bentrovati amici lettori.

Oggi vi presentiamo “I Racconti di Arthaleorn – Il tacito canto dei re senza corona”, un classico epic-fantasy di Paolo La Manna edito da Bibliotheka.
Il romanzo è il primo capitolo di una saga il cui secondo volume, La via dei re senza corona, dello stesso editore, è già disponibile per l’acquisto.

Una volta entrati nella città di Risk non è più possibile uscirne: queste sono le disposizioni del governo per proteggere la popolazione.
Solo a un piccolo gruppo di improbabili compagni viene concesso di partire, affinché avvisino il mondo dell’oscuro pericolo che giunge da Nord e cerchino nuovi alleati in grado di prestare soccorso alla città.
Isandriel ed Elvereeth, due bellissime elfe, insieme al mezzelfo Krahu, al vecchio bardo Ondel e alla piccola sacerdotessa Kanesia partiranno per un viaggio in luoghi oscuri e irti di pericoli, rischiando a ogni passo la loro vita per un bene superiore.

Il romanzo di Paolo La Manna parte da una base interessante, per quanto non troppo originale. La trama è quella di una classica campagna di gioco di Forgotten Realms, l’universo immaginario di Ad. D&D, in cui un gruppo di personaggi dalle varie abilità si riunisce per compiere una missione comune.
Anche i ruoli sono quelli classici: abbiamo infatti la ranger, il guerriero, la maga, il bardo e la sacerdotessa, che costituiscono un tipico party di gioco.

L’ambientazione è ottima, varia e complessa, che passa dalle città ai boschi profondi e dai dungeon alle aspre montagne, e popolata da una serie di creature formidabili e spaventose.

Quest’opera si presenta, tuttavia, anche problematica.

Sebbene, infatti, l’idea di partenza possa considerarsi promettente e l’ambientazione offra innumerevoli possibilità di sviluppo, a nostro avviso si tratta di un romanzo che avrebbe bisogno di altro tempo per poter davvero rendere appieno.

Partiamo dai personaggi.
Ognuno dei protagonisti della storia ha un aspetto e delle caratteristiche ben precisi che, tuttavia, rimangono sempre a un livello molto superficiale.
Nel corso degli eventi apprendiamo molto poco su ognuno di loro, sulla storia personale e sulle motivazioni che li spingono ad agire in un certo modo.
A tratti, senza una logica apparente, scopriamo piccoli scorci del loro passato che, però, non vanno mai a riunirsi in un’immagine neppure parziale, rimanendo schegge di immagini senza connessioni.

Ne è un esempio l’incontro di Krahu con il suo maestro.
Sebbene il mezzelfo sia forse il personaggio di cui conosciamo maggiormente la storia, rimaniamo spiazzati nel momento in cui Uhtred compare in scena. Perché si trova lì? Sono le terre da cui l’elfo era fuggito? In tal caso perché Krahu non dice nulla in proposito? E se non è così, perché non si domanda almeno cosa ci facesse lì il suo maestro? Il personaggio si limita ad accettare la situazione come si presenta, lasciandosi andare solo a qualche vago ricordo e rimorso.

Di Isandriel (e più tardi di Belthiel) non sappiamo assolutamente nulla.
Durante tutto l’arco del racconto vengono disseminati su di lei domande e misteri che rimangono senza risposta.
Da un certo punto in poi, inoltre, più precisamente dal suo incontro con Belthiel, l’aristocratica elfa cambia completamente registro linguistico, lasciando il lettore profondamente interdetto.

Dei restanti personaggi non sappiamo assolutamente nulla, così come dei “cattivi di turno”, che appaiono sulla scena come un fulmine a ciel sereno senza che si capisca chi siano, cosa vogliono né, tantomeno, se abbiano qualcosa a che fare con la minaccia per la quale il gruppo si è messo in viaggio.
Di loro abbiamo immagini appena accennate, con volti coperti da scuri manti, e la consapevolezza che, pur essendo in qualche modo legati al popolo degli elfi, si avvalgono di creature oscure.

Il ritmo della narrazione è buono, ma la storia soffre di un certo squilibrio nella gestione degli eventi, così come lo stile di scrittura, che non è cattivo ma presenta un po’ tutti i problemi comuni agli autori alle prime armi.
L’autore tende a utilizzare un registro aulico, forme narrative epicheggianti e altisonanti, salvo poi passare a un registro molto più colloquiale e diretto che per quanto più accattivanti suonano fuori tema.

Il romanzo è corale, con una focalizzazione interna e narratore onnisciente che salta da un personaggio all’altro senza soluzione di continuità e senza approfondimento psicologico, problema appesantito dalla quasi totale assenza dell’utilizzo dello show don’t tell. È inoltre presente un’eccezionale sovrabbondanza di aggettivi.

Insomma, quello che emerge dalla lettura di questo romanzo è che quella di Paolo La Manna sia un’interessante opera in potenza. Un testo che potrebbe ambire a livelli molto più alti ma che richiederebbe un accurato lavoro di cesello per esprimere la propria vera potenzialità.

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