Mi chiamo Be-Bop. Mi battezzarono così perché mio padre era un appassionato di musica rock. Quello che le donne ballavano mentre lavavano i piatti, sognando il principe azzurro a cavallo di una chitarra.
Una cosa che mio padre ripeteva spesso era: «Oh, figliolo. Quello sì che era un bel vivere! Al calare della sera, quando gli uomini sprangavano le porte e si accomodavano sulle poltrone, io e tuo nonno ci occupavamo della mandria. Le note scoppiettavano nell’aria e accompagnavano ogni nostro movimento. Ah, lavorare al ritmo della musica. Che spasso!»
All’epoca ero piccolo, come i problemi che davo ai miei genitori. Per esempio, mia madre si disperava per il mio pelo. Troppo morbido e profumato di menta piperita. «Così non fa spavento a nessuno», diceva. Mio padre scrollava il capo e le rispondeva: «Sarà il mammone più spaventoso della storia».
Ero nato per essere un gatto mammone. Ma facciamo chiarezza, perché per la mia razza essere un mammone era una cosa seria. Basta dare un’occhiata ai ritratti dei miei antenati per farsi venire la pelle d’oca. Con quegli occhi gialli, le unghie affilate come rasoi e la pelliccia arruffata. I loro miagolii erano simili a ruggiti. Le mandrie non avevano scampo, quando nell’aria echeggiava il verso di un mammone. Questo accadeva prima che gettassi nella vergogna l’intera stirpe.
Il fatto è che di lasciare la casa natale, per prendere la mia strada, non ne avevo proprio voglia. Perché perdere tempo con la caccia, quando bastava gorgogliare e strofinare il pelo sulle gambe del primo essere umano che sbatteva le palpebre, attratto dal mio aspetto insolito?
Ricordo ancora il giorno in cui diedi la notizia ai miei genitori. «Il fatto è che sono vegetariano». Gli spezzai il cuore, ma non mi mandarono via. «Un figlio è un figlio», disse mio padre.
Oggi sono vecchio. Con l’età, il mio pelo si è arruffato. A mio padre brillerebbero gli occhi di piacere, nell’ammirare l’aspetto che ho adesso. Andrebbe in brodo di giuggiole, vedendo la cicatrice che mi attraversa una guancia.
Io sono stato il primo della mia specie ma, dopo di me, in molti hanno deciso di cambiare vita. Eravamo demoni famelici, perché il mondo è grande e sopravvivere fa paura. Siamo diventati animali da compagnia. Veniamo spazzolati, nutriti, accarezzati, fotografati continuamente. Abbiamo mantenuto un carattere un po’ schivo e, se non siamo dell’umore giusto, graffiamo e soffiamo come dei bollitori, ma mammone non è più una parola che fa venire i brividi.
Abbiamo perso i poteri e la capacità di parlare, ma ne è valsa la pena. Perché, quando cala la sera e gli uomini sprangano le porte, possiamo appollaiarci sulle loro poltrone, mentre le note scoppiettano nell’aria. Ah, sonnecchiare al ritmo della musica. Che spasso!
Well, be bop a Lula she’s my baby…
Racconto scritto per Associazione Culturale Universo Fantasy da Angela Gagliano, del CSU – Collettivo Scrittori Uniti.
Immagine realizzata da The Black Rabbit Art.