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RECENSIONE DI “ARMA INFERO – IL MASTRO DI FORGIA” DI FABIO CARTA

Arma Infero Copertina

Bentrovati lettori!

In questi tempi particolari ci dedichiamo per voi a letture decisamente inusuali, quindi siamo qui oggi per presentarvi Arma Infero – Il mastro di Forgia, primo libro di una trilogia a opera di Fabio Carta.
L’autore, classe 1975, è un grande appassionato di fantascienza ma anche della letteratura cavalleresca più classica.
Oltre ad Arma Infero, pubblicato nel 2015 con la Inspired Digital Publishing,l’autore, nel 2016, ci ha regalato anche il racconto lungo Megalomachia (realizzato a quattro mani con l’autrice Emanuela Valentini) e, nello stesso anno, ha partecipato all’iniziativa Penny Steampunk (con importanti firme della fantascienza italiana come Dario Tonani), per la quale è stata realizzata una raccolta di racconti a tema steampunk, a cura di Roberto Cera ed edito da Vaporosamente.
Nel 2016 e nel 2018 sono stati pubblicati il secondo e terzo tomo della trilogia, I Cieli di Muareb e Il Risveglio del Pagan (sempre per Inspired Digital Publishing), mentre nel 2017 è uscito Ambrose, romanzo cyberpunk edito da Scatole Parlanti.

Muareb è un lontano pianeta colonizzato nell’antichità da un piccolo gruppo di terrestri.
Il pianeta è oggi ridotto a un cumulo di macerie, distrutto dai conflitti che hanno irrimediabilmente compromesso l’atmosfera e le poche risorse su cui i discendenti dei terrestri avevano potuto contare.
Su questo pianeta c’è Karan, un uomo vecchio e malato, che racconta a un gruppo di sopravvissuti la sua amicizia con Lakon, il martire tiranno di Muareb, letteralmente piovuto dal cielo, un giorno, con il suo aspetto alieno e la sua mente distante da qualunque altra l’allora giovane Karan avesse mai conosciuto.
Attraverso la loro storia viene narrato il destino di Muareb, dove nel vortice della guerra Lakon divenne un dio.

La prima cosa che si deve dire di Arma Infero è chesi tratta di un romanzo assolutamente particolare, non inquadrabile in una singola etichetta di genere.
L’opera di Carta, infatti, è sì di base un romanzo di fantascienza, ma è allo stesso tempo un manuale tecnico e un saggio filosofico, senza poter evitare di definirlo anche un romanzo cavalleresco con la struttura di un saggio storico.
Per comprendere come tutto questo sia possibile è necessario prendere i vari elementi che lo compongono, in primo luogo l’ambientazione: l’autore ha scelto per la propria storia Muareb, un pianeta lontano nello spazio e nel tempo, talmente lontano che i fondatori delle colonie che lo popolano sono avvolti nel mito di un passato remotissimo e di loro si ricorda nelle leggende che vennero da un pianeta chiamato Terra.
Il pianeta è di per sé ostile, con un’atmosfera a stento sostenibile per pochi momenti solo grazie all’utilizzo di tute ambientali, priva di flora e fauna autoctone, con scarse e mal distribuite riserve d’acqua.
Le già difficili condizioni di vita sono poi peggiorate a causa delle guerre tra gli abitanti, che in passato si divisero in colonie e che guerreggiarono per l’accesso alle risorse prima e a causa di una sorta di “invasione” aliena poi.

Delle tecnologie che i fondatori portarono con loro e crearono sul nuovo pianeta è rimasto molto poco, e quel poco è quasi incomprensibile dai loro discendenti, che si limitano, in pratica, a continuare a sfruttare i loro progetti senza comprenderne appieno il significato.
Delle conoscenze che permisero loro di viaggiare nello spazio, invece, si è perso ogni ricordo.
Si crea così uno strano dualismo in cui i coloni utilizzano delle tecnologie che per noi sono futuristiche e, appunto, fantascientifiche ma allo stesso tempo hanno uno stile di vita di stampo quasi medievale, con tanto di servi della gleba, fazioni aristocratiche, mitiche cerche (come quella del Graal, per intenderci) e, ovviamente i cavalieri.

Il principale mezzo di trasporto dei cavalieri è meccanico: lo zodion da guerra, una sorta di incrocio tra una motocicletta e una biga, dotato di una strumentazione incredibilmente avanzata e di una straordinaria forma di alimentazione. Ma il suo aspetto è importante almeno quanto la meccanica e i cavalieri decorano i propri mezzi con gualdrappe e stendardi, metalli preziosi e gemme nonché, cosa più importante, una sorta di polena di aspetto tendenzialmente spaventoso (un po’ come i drakkar vichinghi).
Non stupitevi dello spazio dedicato a un singolo mezzo di trasporto, perché all’interno del romanzo tale macchina occupa un posto importantissimo, tanto che a essa sono dedicate intere pagine che ne costituiscono un vero e proprio manuale tecnico. Eccovene un esempio:

Le gambe svincolate non avrebbero poi niente affatto pregiudicato l’equilibrio dinamico del rotismo epicicloideo, ché per mantenere la fissità del portatreno planetario – necessaria all’abbrivio dell’accelerazione – bastavano il legame della braccia dello zodion e un giogo opportunamente modificato.

Lo zodion rappresenta una vera e propria fissazione per Karan e, in parte, anche per Lakon, i due principali protagonisti del romanzo.

La voce narrante è quella di Karan, giovane maniscalco della colonia di Dragan, anche se la sua storia è indistricabilmente intrecciata con quella di Lakon, uno strano essere con impianti meccanici mai visti prima e che si presume venire dalle stelle.
Karan è un uomo dalla mente scientifica e dall’animo ardente che sogna di divenire cavaliere, il cui incontro con il Martire Tiranno lo porterà al centro della rivoluzione destinata a cambiare le sorti del pianeta.
La caratterizzazione dei due protagonisti è particolare come ogni altro tratto di questo romanzo. Gli elementi distintivi dei due personaggi, infatti, più che dalle azioni sono definiti attraverso i loro dialoghi, vere e proprie discussioni filosofiche incentrate sui massimi sistemi dei valori sociali di condivisione.
Tali scambi sono davvero numerosi e diventano uno degli elementi più caratterizzanti del romanzo. Ve ne riportiamo un piccolo esempio:

L’identità, ah! Coacervo di sforzi cognitivi volti alla coerenza trascendete, al senso assoluto! Immagine mutevole che si riflette negli occhi degli altri, ma con la presunzione di essere eterna e immodificabile. Essa è la menzogna di un monolite che si spaccia per roccia ma è fatto di creta! È… è una semplice percezione soggettiva, uno stratagemma del nostro cervello che ci rende consapevoli di essere autonomi rispetto all’ambiente circostante.

Ovviamente non tutti i personaggi si esprimono costantemente in questo modo e la presenza di figure come Guderian, cavaliere sbruffone, violento e gaudente, Turfan compagno d’armi dei protagonisti e di Luthien, nobile dama e oggetto dell’amore di Karan, riescono ad alleggerire notevolmente l’atmosfera.

All’interno della storia sono poi presenti diverse trame, scontri tra fazioni, inganni e tradimenti che mirano alla supremazia di questa o dell’altra fazione politica, tracciate in maniera così approfondita e meticolosa da permettere di ricostruire ogni evento storico nell’ottica delle sue conseguenze… come un manuale di storia.

Insomma, da tutto questo emerge chiaramente come Arma Infero sia un romanzo decisamente particolare, sicuramente non adatto a chiunque, perché la sua lettura richiede un livello di impegno mentale molto alto, dovuto anche allo stile volutamente “epicheggiante” e aulico con elementi che lo rendono, a tratti, didascalico oltre misura.
Nonostante questo pensiamo che sia un romanzo con delle potenzialità notevoli, che potrebbe realmente interessare i lettori forti proprio per la sua originalità.

Che ne dite? Volete cimentarvi nella sfida?

RECENSIONE DI “ARMA INFERO – IL MASTRO DI FORGIA” DI FABIO CARTA was last modified: Giugno 24th, 2020 by Arianna Giancola
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